“Nessuno schiavo è più infelice di quello che mette al mondo figli destinati a essere schiavi.” (Esopo)
Il tema non è distruggere, rimuovere o salvare una statua perché quelle, aldilà del fatto assolutamente soggettivo che possano piacere o meno, non ci aiuta a guardare la realtà nel suo complesso. Una statua è una semplificazione; l’idealizzazione dei valori che un certo personaggio ha rappresentato che, per sua natura fredda ed asettica, non può cogliere la complessità dell’esistenza soggettiva. Ma l’uomo, evidentemente, ha bisogno di simboli.
Nella vita, è necessario sapere mettere insieme sia la professionalità e quello che rappresenta, che la morale e l’etica. In politica invece, è utile saper mettere insieme ciò che è in linea con i nostri valori e ciò che non lo è. Altrimenti riabilitiamo il “ha fatto anche cose buone”, o “Italiani brava gente”, senza fare mai davvero i conti con le violenze, i soprusi ed il razzismo del nostro passato coloniale; e poiché non siamo qui a redimere le persone né i popoli, ciò che si è fatto nella vita e i segni che si sono lasciati nella storia, nel bene e nel male, rimangono. Non si può cancellare i capitoli del nostro passato che ci piacciono meno. Ognuno di noi, come individuo e come parte di un collettivo, si porta dietro un’eredità, un lascito del passato che non è possibile abbandonare per strada. Come uno zaino o, a volte, un fardello.
Se dobbiamo parlare dell’uomo Montanelli, è indispensabile precisare che non possiamo semplicemente perdonare tutto o, peggio ancora, inserire tutto in un contesto storico per trovare una scusante. Nella vita esistono i crimini ed esistono gli errori. Abusare di una bambina di dodici anni (a dodici anni si è ancora bambini) dopo averla comprata per “two cents” (e il riferimento non è assolutamente casuale) e chiamata “animaletto docile”, non è un errore, ma un crimine. Perché basato su un presupposto preciso, quello relativo alla superiorità razziale e di genere. D’altronde lo stesso Montanelli diceva: “non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà”.
Tre uomini bianchi e una donna nera. Un sorriso beffardo sulla bocca di uno di loro mentre la vittima urla e si dibatte tra le mani dei suoi carnefici, invano. È il famoso dipinto «Le viol de la négresse», dell’artista fiammingo Christiaen van Couwenbergh (XVII secolo), che descrive gli orrori del sistema colonialista e schiavista. Ci dimentichiamo o ci conviene dimenticare la violenza coloniale espressa tramite gli stupri. Gli inglesi, i francesi, gli italiani facevano spesso ricorso a queste pratiche sugli africani e, se allora non scioccava perché “si usava così”, giustificarlo oggi è inaccettabile. Contestualizzarlo significa giustificarlo e significa anche esserne complici o, semplicemente, girare lo sguardo da un’altra parte.
Nelle colonie in Africa in generale e nel Corno d’Africa in particolare, i popoli sono stati vittime di atrocità come deportazioni, incendi di villaggi, stupri e torture. Le donne “indigene” sono state particolarmente colpite perché considerate inferiori sia per la razza che per il genere e c’è poco da definire “animaletto docile” una bambina perché la superiorità del maschio bianco la si dimostrava con la forza e con la violenza ma nascosta dietro un piccolo compenso per scaricarsi la coscienza pensando di “aiutare i famigliari”.
Le differenti forme di violenza contro le donne africane si sommavano insidiosamente in un contesto nazionalista, razzista e maschilista che non è estraneo all’influenza di immagini stereotipate del colonialismo dei secoli passati come descrivere le colonie come territori esotici ed erotici che ha caratterizzato il colonialismo fascista in Africa. La colonia dipinta come spazio vergine da scoprire e da conquistare, un nuovo mondo da penetrare. Il discorso coloniale italiano, impregnato di queste immagini, faceva ricorso spesso a delle espressioni suggerite dall’associazione della colonia al corpo delle donne. L’erotizzazione delle colonie è stata inculcata nella mente del colonizzatore fino al XX secolo ed è stata, consciamente o inconsciamente, assimilata dai coloni. Schiavizzare le popolazioni, toglierne l’identità, seviziare, umiliare, stuprare e distruggere.
Le diverse forme di violenza perpetrata sulle ragazzine e le donne africane rivelano comportamenti tipici dei colonizzatori bianchi. Fin dall’inizio della politica coloniale mussoliniana, l’Italia si è inspirata al principio legato al ruolo del Paese portatore di civiltà come lo sono state le altre potenze imperialiste in Africa, sottolineando la sua volontà di impegnarsi in un processo di liberazione dalla schiavitù dei popoli. La schiavitù non fu mai abolita e i popoli mai liberati. Fu solo un passaggio di proprietà da un imperialista ad un altro.
“Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina. Quando staremo vicino a te, noi te daremo un’altra legge e un altro Re. La legge nostra è schiavitù d’amore, ma è libertà de vita e de pensiere.”
La sposa bambina di Montanelli assume il profilo della faccetta nera di Micheli, canzone che era invisa al governo fascista, perché inneggiava alla mescolanza tra razze ma adorata dai coloni italiani perché’, in essa, vedevano riconosciuto il proprio ruolo di civilizzatori e ci nascondevano i loro crimini. Non basta prendere le distanze da Mussolini e dal fascismo. Siamo stati un popolo razzista, suprematista e fautore della retorica del dominatore bianco. Soltanto elaborando gli errori del passato potremo eliminare definitivamente il nazionalismo ed il sovranismo dal nostro patrimonio sociale. È facile dire semplicemente che Mussolini era cattivo. È più complesso riconoscere dei tratti culturali che ci hanno definiti come popolo. Non esistono soltanto le colpe individuali, ma anche le responsabilità collettive. Montanelli e Mussolini sono stati chiamati a rispondere dei propri atti di violenza la cui colpa è ricaduta solo e soltanto su di loro. La responsabilità collettiva dello zeitgeist italiano di inizio 900, invece, ricade su tutti noi, che abbiamo il dovere di riconoscere e porre rimedio agli errori del nostro passato, come popolo e come civiltà.
Montanelli non sì è mai pentito e non ha nemmeno messo in discussione il proprio passato razzista, non ha fatto autocritica, non ha riconosciuto i propri crimini. In breve, aveva sfogato sul corpicino di una bambina i suoi istinti più primitivi e ne parlava con una sconcertante facilità. Guardando con condiscendenza al proprio passato ha riferito al pubblico e ai suoi lettori di essere stato un dominatore buono, amato ed adorato a tal punto dal suo animaletto, da aver condizionato la scelta del nome del figlio di quest’ultimo.
Come può un uomo istruito, un intellettuale, trovare qualcosa di attraente nel corpicino di una bambina ancora priva di forme? Come può, un uomo occidentale ed evoluto, parlare di lei come fosse priva di anima, di paure e di sentimenti? A quelle bambine lasciate pure incinte, hanno annientato ed annullato tutto. Per il semplice motivo che per secoli, il continente africano è stato considerato, ed è tutt’ora considerato, una sorgente di materie prime e schiavi da sfruttare e gettare nell’indifferenziata del mar mediterraneo.
Indro Montanelli era in Africa ai tempi del fascismo ma questi metodi sono stati usati fino a sessanta anni fa quando i coloni erano ancora padroni in terre indigene e durante le guerre di liberazione. Lo stupro come tortura e come tentativo di dimostrare la propria dominazione sul corpo di quelle donne che hanno osato sfidare il bianco per l’autodeterminazione del proprio paese. Lo stupro come punizione per dimostrare la propria superiorità come uomini bianchi. Lo stupro per dimostrare l’ancestrale convinzione della superiorità dell’uomo sulla donna. Lo stupro delle bambine invece è da relegare ad un’altra sfera. È pedofilia e non ci sarebbe nemmeno da discuterne.
A coloro che giustificano Montanelli con la scusa che negli anni trenta si faceva così, bisognerebbe ricordare che negli anni sessanta, scriveva, commentando le rivolte per l’iscrizione di un afroamericano all’università di Oxford: “Per quanto la sollevazione segregazionista fosse un errore, tuttavia questo errore e questo sopruso sono stati un eccesso di difesa ispirato da una preoccupazione che purtroppo è legittima: quella della salvaguardia biologica della razza bianca”. E sempre negli anni sessanta, quando un popolo nordafricano era in guerra contro il colonialismo francese per la propria indipendenza e per cancellare gli abusi, soprusi e stupri che i coloni perpetravano, Montanelli rilasciava un’intervista a Le Figaro Littéraire in cui diceva: “Ah! La Sicilia! Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani.”
La statua di porta Venezia è dedicata al Montanelli giornalista o al Montanelli razzista? Siamo disposti a perdonare i crimini e le violenze di un uomo per il suo talento e la sua libertà di pensiero?
Parlare della statua sì o no è anacronistico. La statua fu una decisione del Sindaco Albertini e, allora, non ci furono tutte queste polemiche. Non a questo livello. Parlarne oggi ha avuto il clamoroso effetto di spostare lo sguardo da un fatto grave come l’uccisione di Floyd e del razzismo in generale su una questione poco rilevante come una statua. Ma ha avuto l’effetto di fare uscire allo scoperto coloro che, pur di attaccare l’asino dove dice il padrone e nel grottesco tentativo di difendere la figura del giornalista, di giustificare lo stupro, l’acquisto delle spose e la pedofilia.
E questo è inaccettabile.